L’interesse del mondo scientifico per la religione sembra soggetto a manifestarsi in ondate successive. La prima si ebbe dopo la pubblicazione, nel 1859, de L’origine delle specie di Darwin. Negli anni Trenta e Quaranta del secolo appena concluso, ne seguí un’altra, legata alle sorprendenti rivelazioni della meccanica quantistica, che indicavano l’inadeguatezza delle tradizionali teorie sulla struttura fisica dell’Universo. Oggi gli studiosi, nei loro scritti, si occupano di nuovo di religione, apparentemente perché provocati, questa volta, dal dibattito che coinvolge il concetto di intelligent design.

Nell’ultimo anno sono apparsi numerosi libri di divulgazione scritti da scienziati e filosofi. Daniel Dennett ha dato il calcio d’inizio con il suo Rompere l’incantesimo (2006),1 serrata indagine sulla possibilità di una scienza della religione. Prendendo in considerazione le proposte teoriche dell’evoluzionismo, della psicologia e dell’economia sull’origine della fede, Dennett ha compiuto un lungo cammino, ma è giunto soltanto a poche conclusioni. Recentemente, tre ricercatori di rilievo, tutti e tre biologi, hanno pubblicato un proprio testo sul problema del credere.

Richard Dawkins, titolare della prima cattedra di Public Understanding of Science alla Oxford University, ha scritto L’illusione di Dio, un testo polemico contro la fede, di cui ci occuperemo estesamente in seguito. Lewis Wolpert, ben noto biologo dello sviluppo presso lo University College di Londra, ora in pensione, ha dato alle stampe Six Impossible Things Before Breakfast, una gradevole, anche se un po’ incoerente, indagine sulle basi biologhe dell’attitudine a credere.

Concentrandosi sulla nostra capacità di elaborare credenze legate a nessi causali per gli eventi della vita d’ogni giorno (il vento fa muovere i rami degli alberi, a esempio), il libro esamina, dedicandovi ampio spazio, l’origine delle credenze che hanno a che fare con religione e morale. Wolpert sostiene l’idea non consueta secondo cui il pensare in base a nessi causali sia un adattamento necessario alla fabbricazione di utensili.

Le credenze religiose possono quindi essere interpretate come una strana estensione dell’abitudine a pensare per nessi causali nelle attività tecnologiche a tematiche assai più misteriose. Soltanto una specie in grado di pensare con relazioni di cause ed effetti, potrebbe affermare che «questa tempesta è stata mandata da Dio perché abbiamo peccato». Per quanto il suo atteggiamento nei confronti della religione sia tollerante, Wolpert è un ateo che sembra considerare la religione stessa come un tema sconcertante e curioso piuttosto che di grande interesse e avvincente.

Joan Roughgarden, al contrario, è strettamente legata alla religione. Biologa evoluzionista presso la Stanford University, di recente convertitasi al cristianesimo, cerca, movendosi nei due campi dell’evoluzionismo e della fede cristiana, di spiegare la biologia evoluzionistica ai colleghi credenti (presentando tutto ciò che è noto, ciò che è ipotetico e ciò che non è spiegato), ma anche di discutere quanto la Bibbia può dire in merito a temi importanti per l’evoluzione.

Si tratta di obiettivi ambiziosi, soprattutto per un libro cosí breve e le opinioni personali della Roughgarden (tra le quali quella secondo cui, come scrive, «ciò che i biologi evoluzionisti scoprono con le loro ricerche e le loro ipotesi, suggerisce in effetti una visione cristiana della natura») non sono sostenute da argomentazioni adeguatamente dettagliate.1

Tra i libri citati, quello di Dawkins, L’illusione di Dio, si distingue decisamente per due ragioni. Prima di tutto è assai più ambizioso. Mentre Wolpert e la Roughgarden tengono il loro sermone al proprio uditorio (rispettivamente razionalista uno e religioso l’altro), Dawkins si assume la missione di convertire chi lo legge. È nemico della religione, intende spiegare perché lo è, e spera cosí di portare la bestia all’estinzione. In seconda istanza, Dawkins è riuscito a catturare l’attenzione del pubblico a un punto che altri scrittori possono a stento sognare di raggiungere. Il suo libro è nell’elenco dei più venduti redatto dal New York Times e la sua immagine è comparsa sulla copertina di Time.

Il primo libro di Dawkins, Il gene egoista (1976),2 ha avuto un successo strepitoso. Si trattava di un’introduzione alla teoria dell’evoluzione, in cui l’autore spiegava numerosi risultati decisamente non intuitivi, tra i quali il fatto che un processo in apparenza legato all’interesse del singolo individuo, come la selezione naturale darwiniana, potesse dar conto dell’evoluzione dell’altruismo. La più preziosa qualità del testo dipendeva dalla capacità di Dawkins di presentare questa teoria biologica (in alcune parti davvero ingegnosa ma quasi inafferrabile) con una prosa formidabilmente chiara e persuasiva. (A mio parere si tratta del miglior lavoro di divulgazione scientifica che sia mai stato scritto.)

Dawkins ha poi pubblicato molti altri libri divulgativi sul darwinismo, ma, in tempi recenti, si è dedicato a temi di più vasta portata. In testi come L’arcobaleno della vita (1998) e Il cappellano del Diavolo (2003),3 ha indagato sul nostro senso di meraviglia di fronte al mondo della natura e, con sempre maggiore attenzione, sulla tensione esistente tra scienza e religione.

Il suo nuovo libro riprende quest’ultima tematica. Chiaramente convinto che la sua formazione scientifica gli permetta di trarre conclusioni di notevole forza a proposito della religione, Dawkins, nell’Illusione di Dio, presenta tali conclusioni usando un linguaggio se possibile ancor più forte.

Dawkins non pensa soltanto che la religione sia un’autentica sciocchezza ma anche che essa sia una forza agente nel mondo come pericolo incombente e perfino che sia decisamente maligna. Bersaglio di Dawkins non è tanto la religione nelle sue varie strutture, quanto ogni forma di religione.

E nell’ambito delle religioni organizzate, non sferra i suoi attacchi soltanto contro le sette estremiste, ma anche contro le forme moderate. Sostiene, in effetti, che allevare un bambino in una data tradizione religiosa sia equivalente a usargli violenza.Il libro si apre con una descrizione di ciò che Dawkinks indica come «l’ipotesi di Dio», l’idea cioè che «l’universo con tutto quanto vi è compreso» sia stato progettato da «un’intelligenza sovrumana e soprannaturale».

Questa intelligenza potrebbe essere personale (come avviene nel cristianesimo) o impersonale (come nel deismo). Dawkins non si occupa delle caratteristiche dettagliate che si asserisce siano proprie di Dio, ma del fatto che sia sostenibile una qualunque forma di ipotesi concernente Dio.

La sua risposta è: quasi certamente no. Per quanto il suo obiettivo sia molto ampio, Dawkins tratta prevalentemente del cristianesimo, in parte perché questa religione ha spesso combattuto contro la scienza e in parte perché si tratta della tradizione che conosce meglio (è stato infatti allevato nella tradizione anglicana).I primi capitoli dell’Illusionedi Dio sono dedicati a questioni di carattere filosofico.

Dawkins fornisce un compendio delle argomentazioni filosofiche sull’esistenza di Dio presenti nella tradizione, da Tommaso d’Aquino via via passando per i ragionamenti predarwiniani dedotti da modelli biologici e, insieme a ogni proposta, indica i ragionamenti tradizionalmente usati per controbatterla. In un capitolo successivo (il quarto), intitolato “Perché è quasi certo che Dio non esiste”, Dawkins stesso si fa filosofo, proponendo il principale ragionamento del suo testo.

L’ipotesi di Dio, ci dice, è con buona approssimazione da scartare in base alle leggi della probabilità. La dimostrazione si vale di quello che Dawkins indica come «l’espediente del Super-Boeing 747». Si tratta della sua variante di una classica argomentazione dei creazionisti. Con un ingegnoso aggiustamento, Dawkins riesce a servirsi di questo ragionamento per giungere a una conclusione diametralmente opposta a quella tradizionale del creazionismo.

Ecco il ragionamento creazionista. Gli oggetti viventi sono enormemente complessi. Anche i più semplici tra gli organismi attuali, come i batteri, sono di gran lunga più complessi di qualsiasi oggetto del mondo non vivente. Tutti gli organismi contengono geni, costituiti da una molecola in grado di replicarsi come il DNA (esso stesso già molto complesso). Ma il solo DNA non può formare un organismo.

Gli organismi contengono anche molte proteine diverse (ognuna, a sua volta, formata da amminoacidi) e altre molecole che contribuiscono alla formazione di strutture come le membrane cellulari. Inoltre tutte queste parti devono essere disposte proprio nel modo giusto: le membrane a delimitare esternamente la cellula e il DNA alloggiato al suo interno, e cosí via. Secondo quanto sostengono i creazionisti, l’idea che una tale complessità altamente organizzata possa sorgere in modo del tutto naturale (cioè senza l’intervento di una mente che l’abbia progettata) è assurda.

In particolare costoro affermano che la probabilità di un assemblaggio spontaneo di tutte le parti di un organismo vivente sia assai prossima a zero. Per aumentare l’effetto dell’affermazione i creazionisti insinuano che pensare al sorgere della vita in modo del tutto naturale equivale a pensare che un tornado, investendo un deposito di rottami, possa mettere insieme un Boeing 747.

Un simile evento non è, a stretto rigore, impossibile, ma è tanto improbabile che, secondo i creazionisti, non merita di esser preso seriamente in considerazione.4La variazione che Dawkins esegue sul tema di questo ragionamento si vale di una mossa quasi da judo, perché ne rivolge la logica contro se stessa. In particolare dichiara che respingere gli eventi naturali per spiegare l’esistenza della vita e invece ricorrere a un Dio che l’ha progettata ci offre un’ipotesi ancor più improbabile di quella naturalistica: «Un dio architetto non può spiegare la complessità organizzata, perché se è capace di progettare qualcosa di complesso, dovrebbe essere a sua volta complesso e aver quindi bisogno per sé dello stesso tipo di spiegazione che si dà per la complessità da lui creata».

In breve, soltanto oggetti complessi possono progettare oggetti più semplici: l’informazione non può fluire nel verso opposto, con gli oggetti semplici che progettano quelli complessi. Ma ciò significa che ogni Dio progettista dovrebbe essere più complesso (e dunque più improbabile) dell’universo di cui si suppone possa spiegare l’esistenza. Questo ragionamento, Dawkins conclude, «dimostra che, sebbene non si possa tecnicamente dimostrare che non esista, Dio è molto, molto improbabile»: la probabilità che l’ipotesi di Dio sia giusta è tanto piccola da essere quasi trascurabile.

Una parte della seconda metà dell’Illusione di Dio è dedicata alla discussione su come venga messa in pratica la religione. Non c’è da stupirsi che Dawkins riscontri ben poco di buono in questa attività: per lui la religione è radice di molto male e la sua scomparsa dal mondo non potrebbe che essere un bene senza limiti. La religione, ci dice, non è di certo la sorgente dei nostri comportamenti morali (in effetti il Dio del Vecchio Testamento è, come sostiene Dawkins, nient’altro che un essere mostruoso) e i credenti non sono migliori, sul piano morale, dei non credenti; essi anzi potrebbero essere peggiori.

Dawkins ci delizia con racconti su poliziotti cristiani che minacciano di picchiare selvaggiamente un ateo; offre statistiche che indicano tassi di criminalità più alti in regioni dove è più forte la religiosità e ipotizza che, tenendo conto della violenza e del terrorismo d’ispirazione religiosa, «la colpa va data alla religione stessa, non all’estremismo religioso, che viene spacciato per un terribile pervertimento della vera religione, la religione “buona”». In seguito Dawkins difende una morale affrancata dalla fede, e propone i suoi, ovviamente laici, dieci comandamenti, tra i quali, a esempio: «Non indottrinare i tuoi figli» e «Godi della tua vita sessuale (purché non danneggi nessuno) e lascia che gli altri godano della propria quali che siano le loro inclinazioni».

Come avrete notato, Dawkins discutendo di religione si trasforma, di fatto, in un corpo contundente e ha qualche problema nel distinguere i seguaci dell’unitarianesimo da coloro che fanno saltare le cliniche dove si praticano aborti. Può però apparire meno ovvio che non riesca, nelle domande relative a Dio, a evitare una buona dose di dissensi, espressi soprattutto da colleghi ricercatori (e specialmente da colleghi che sono biologi evoluzionisti).

In realtà Dawkins è entusiasta di poter attribuire qualche segreto movente agli studiosi, che etichetta come «scuola di evoluzionisti alla Neville Chamberlain»,5 i quali non vogliono spingersi tanto avanti come lui nella guerra contro la religione: insinua che essi possano essere colpevoli di insincerità, di adottare tattiche da politici e di desiderare ardentemente i grossi premi attribuiti dalla Fondazione Templeton agli scienziati che si dimostrano in accordo con la religione.6 Il solo movente che Dawkins sembra non prendere sul serio è il fatto che alcuni studiosi possano, in tutta sincerità, non essere d’accordo con lui.

Nonostante la mia ammirazione per gran parte del lavoro di Dawkins, temo di essere tra quei ricercatori che qui devono allontanarsi da lui. In effetti mi sembra che L’illusione di Dio presenti non pochi difetti. Pur avendo etichettato Dawkins come un professionista dell’ateismo, sono costretto, dopo aver letto il suo ultimo libro, a dedurne che in realtà è piuttosto un dilettante. Non ho la presunzione di sapere se ci sia al mondo qualcosa di più di ciò che salta all’occhio e, per quanto ne so, nel complesso le conclusioni di Dawkins sono giuste. Tuttavia le prove esposte nel suo libro sono tutt’altro che convincenti.2

La caratteristica più deludente dell’Illusione di Dio è l’incapacità di Dawkins di affrontare il pensiero religioso in un qualunque modo veramente serio. Si tratta, è ovvio, di una cosa davvero strana da dire in relazione a un’indagine su Dio che si dipana per tutto un libro. Ma questo problema rispecchia l’atteggiamento di disprezzo che l’autore ha nei confronti del pensiero religioso. Dawkins tende a liquidare le semplici espressioni di fede come volgari superstizioni.

Non dimostrando alcuna tolleranza per la fede dei fondamentalisti, tende anche a respingere come sofismi espressioni di fede più elaborate (non può, a esempio, sopportare i meticolosi ragionamenti dei teologi). Se però la religione semplice è in qualche modo barbara (e dunque non degna di essere considerata seriamente) e la religione più evoluta è contraria alla logica (dunque altrettanto indegna di un’indagine seria), l’inevitabile conclusione è che la religione in toto non merita di essere considerata seriamente.

Il risultato di tale atteggiamento è L’illusione di Dio, un libro che non affronta mai direttamente i propri oppositori. Nel libro non si troverà alcun esame approfondito della teologia cristiana o ebraica (Dawkins sa che Agostino ha respinto, agli inizi del IV secolo, l’adesione alla lettera del testo biblico?), nessun tentativo di seguire i dibattiti filosofici sulla natura delle affermazioni religiose (sono davvero simili alle affermazioni che si sostengono su quanto accade nella vita d’ogni giorno?), nessuno sforzo per valutare correttamente la complessa storia dell’interazione tra chiesa e scienza (Dawkins sa che la chiesa ha avuto un ruolo importante nello sviluppo della scienza non-aristotelica?) e nessun tentativo di comprendere anche il più semplice atteggiamento religioso (crede davvero, come ci dice, che i cristiani dovrebbero rabbrividire apprendendo di essere malati terminali?).

Dawkins ha invece scritto un libro che è decisamente (e perfino in modo scoraggiante) di medio livello. L’universo intellettuale di Dawkins sembra essere popolato da persone come Douglas Adams, autore di Guida galattica per gli autostoppisti,7 e Carl Sagan, il noto divulgatore scientifico,8 tutti e due citati a più riprese. Si tratta di un gruppo di autori ben diversi da pensatori come William James e Ludwig Wittgenstein, entrambi vissuti dopo Darwin, ed entrambi impegnati a lottare con il problema della fede e in grado di dire assai di più, a proposito della religione, di quanto dicano Adams e Sagan.

Dawkins dedica parecchio spazio a temi che possono essere descritti soltanto come banalità intellettuali: «Gesù aveva un padre umano o sua madre era vergine al momento del parto? Siano rimaste o no prove sufficienti per stabilirlo, si tratta ancora di un problema strettamente scientifico».9 Il vuoto dovuto al fatto che Dawkins non riesce a confrontarsi con il pensiero religioso, deve essere colmato da qualcosa: nell’Illusione di Dio, tale vuoto accoglie citazioni altrui, stralci di lettere di gente che scrive all’autore, e soprattutto, aneddoti su aneddoti.

A esempio, la discussione che Dawkins ci propone a proposito del potere consolatorio della religione è interrotta dalla citazione che esprime la gioia provata dall’abate di Ampleforth nell’apprendere che un amico stava per morire, da congetture sul perché, in nazioni come l’Olanda, dove l’eutanasia è lecita, essa sia rara (forse a causa di prevenzioni di carattere religioso), da quanto un’infermiera gli ha riferito sul timore della morte, più forte nei credenti che nei non credenti e dal numero di giorni di remissione della permanenza in Purgatorio che papa Pio X concesse ai cardinali e ai vescovi (rispettivamente duecento e cinquanta).

Tutto ciò e altro, in quattro fitte pagine. Sembra sia scomparso il Dawkins del Gene egoista, un autore che poteva guidare i suoi lettori tra argomentazioni di scoraggiante difficoltà e utilizzava gli aneddoti per spiegarle e non per prenderne il posto.3

È chiara una delle ragioni per cui nell’Illusione di Dio mancano ragionamenti ampi e articolati: Dawkins non sembra essere molto abile in questa attività. Ha in effetti non pochi problemi quando tenta di ragionare in termini di filosofia: tra questi il più evidente consiste nell’avere sempre davanti a sé un insieme preordinato di conclusioni cui è ben deciso ad arrivare. Di conseguenza Dawkins si serve di qualsiasi argomentazione che, per quanto debole, sembri in grado di condurlo al suo scopo, e proprio il dove possano condurre i diversi ragionamenti appare, nella maggioranza dei casi, come unico criterio per misurarne il valore intrinseco.

L’esempio più importante in proposito è dato dalla discussione di Dawkins sui ragionamenti filosofici a favore dell’esistenza di Dio che si oppongono al ragionamento da lui stesso proposto contro tale esistenza. È questo il tema che l’autore ci offre come centro logico del suo libro. Prendendo in esame le argomentazioni a favore di Dio, Dawkins è molto preciso nel citare le tante comuni obiezioni che le confutano e scrive che le prove tradizionali sono vuote, inutili, pericolosamente fuorvianti. Ma quando considera il proprio ragionamento contro Dio, basato sul capovolgimento della faccenda del Boeing 747, appare subito poco interessato all’esercizio della critica e dichiara che esso è irrefutabile.

E allora, ci si potrebbe chiedere, perché un ingegnoso ragionamento filosofico a favore di Dio può essere sottoposto a critiche sarcastiche, mentre uno contro Dio gode di un salvacondotto ed è giudicato di una forza devastante?La ragione sembra essere lampante. Il primo tipo di ragionamento porta a una conclusione che Dawkins disprezza, mentre il secondo porta a una che gli piace. All’autore, per quanto possa valere la mia opinione, non interessa se il tema centrale del suo libro ha più che una vaga somiglianza con le ingegnose prove filosofiche dell’esistenza di Dio da lui respinte. E ciò è spiacevole.

Dawkins avrebbe potuto servirsi di una sana dose del suo abituale scetticismo nel decidere quanto poteva contare sul suo adattamento dell’argomentazione sul Boeing 747. In realtà non è necessario essere creazionisti per notare che il ragionamento di Dawkins presenta, in potenza, almeno due problemi. In primo luogo, come già altri hanno evidenziato, se Dawkins ha ragione, l’ipotesi del progetto deve necessariamente essere sbagliata e l’ipotesi alternativa di tipo naturalistico deve essere giusta. Ma da quando un’ipotesi scientifica è convalidata da un esercizio di ginnastica filosofica e non da una serie di dati?

In secondo luogo, il fatto che un’ipotesi si riveli, a noi ricercatori, come una petizione di principio (come accade a Dawkins quando chiede: «Chi ha progettato il progettista?») rende impossibile definire intrinsecamente il suo grado di verità. Dopo tutto, la derivazione da una qualche mente trascendente potrebbe essere una caratteristica inspiegabile dell’universo, per quanto ciò possa sembrare una petizione di principio.

Dal tipo di spiegazione che ci appare soddisfacente potremmo dedurre molto di più su noi stessi che sul valore effettivo delle spiegazioni. Perché, a esempio, Dawkins è cosí poco turbato dal suo assunto (di notevole peso) secondo cui si possono considerare come date sia la materia sia le leggi di natura? Perché questo assunto non gli appare come una petizione di principio?L’uso di due pesi e due misure inquina anche la discussione di Dawkins sull’idea secondo cui la religione spinge a comportarsi bene.

Dawkins cita una serie di dati statistici (quasi una litania) che rivelano come, negli USA, gli stati a prevalenza repubblicana, dove sono molti i cristiani conservatori, siano afflitti da un tasso di criminalità (con omicidi, effrazioni e furti) più alto di quello rilevabile negli stati a prevalenza democratica. Ma consideriamo poi la sua risposta relativa al fatto che Stalin e i suoi compari hanno commesso crimini da mozzare il fiato per la loro enormità: «Il problema non è se i singoli esseri umani malvagi (o buoni) siano stati religiosi o atei.

Non si tratta di contare i “cattivi” e vedere da che parte stanno». Spiace un po’ che unaquarantina di pagine prima le statistiche citate facciano proprio questo tipo di conti.Le difficoltà che Dawkins incontra nell’occuparsi di filosofia potrebbero essere poste in relazione con una carenza di immaginazione sul piano metafisico. Quando pensa ai temi enormi che costituiscono la religione (temi correlati con il senso ultimo delle cose, che stanno al limite dell’intelligibile e che sono tra i più difficili da esprimere e trattare), sembra vedere soltanto in bianco e nero. Malgrado qualche tentativo di raggiungere una certa finezza nel distinguere, Dawkins quasi automaticamente identifica la religione con il fondamentalismo di destra e l’interpretazione letterale della Bibbia.

Altre possibili manifestazioni più sfumate (le diverse forme di deismo, di misticismo, o di spiritualità non confessionale) non sembrano riuscire a catturare la sua attenzione. È possibile che Dawkins non sappia immaginare tali possibilità in modo tanto realistico da potersene preoccupare seriamente.La questione presenta un aspetto ironico. La principale critica rivolta da Dawkins a chi dubita delle affermazioni di Darwin (e si tratta di una critica giusta) riconosce in costoro una mancanza d’immaginazione del tutto analoga.

Chi sostiene, a esempio, che l’evoluzione non può aver fabbricato un occhio perché nulla che non sia un occhio del tutto formato è in grado di vedere, è semplicemente incapace di immaginare le fantastiche strade seguite dai processi evolutivi. In ogni caso, una parte della carenza di immaginazione potrebbe proprio consistere nell’incapacità di capire che l’immaginazione stessa è troppo debole.

È difficile non concludere che, mentre Dawkins fa spallucce, persone come James e Wittgenstein hanno combattuto di persona contro la religione, almeno in parte perché hanno saputo concepire possibilità (forse anche sbagliate, ma certamente più interessanti) che a lui appunto sfuggono.4.Mettendo da parte questi argomenti filosofici, l’affermazione chiave, empirica, di Dawkins (la religione è una forza nociva nel mondo) potrebbe comunque essere giusta.

Ma lo è sul serio? In ogni parte dell’Illusione di Dio, Dawkins ci ricorda gli orrori che sono stati perpetrati nel nome di Dio, a partire da tutte le vere e proprie guerre, via via alle persecuzioni di sette minoritarie, agli atti di terrorismo, all’azione di chiusura sulle menti infantili e all’oppressione nei confronti di chi ha una vita sessuale non ortodossa. Nessuna persona rispettabile può evitare di provare un senso di ripugnanza per le colpe commesse in nome della religione. Siamo dunque tutti d’accordo: la religione può essere nociva.

Ecco però la domanda davvero critica: con che cosa la si confronta? Qui Dawkins diventa meno convincente perché non riesce a esaminare la questione in modo sistematico e coerente. Esami sperimentali sulle conseguenze della religione potrebbero comprendere un gran numero di confronti diversi: tra gli effetti buoni e cattivi che essa ha, o tra i comportamenti di credenti e non credenti, e cosí via.

Sfiorando appena ognuno di questi casi, il modus operandi di Dawkins comporta in genere il confronto tra la religione cosí come viene praticata (cioè come si sviluppa nel mondo disordinato e violento dei compromessi, della corruzione e dell’incompetenza) e l’ateismo inteso come teoria. Ma per essere imparziali si dovrebbero confrontare la religione e l’ateismo sia sul piano della pratica sia su quello teorico. Indagare su quest’ultimo piano è un compito senza una forma definita e forse impossibile, e posso ben capire perché Dawkins lo schivi.

Confrontare entrambi gli atteggiamenti in relazione alla pratica è meno tortuoso. E, almeno se si prendono in esame le istituzioni religiose e quelle atee, gli eventi della storia non mi sembrano dimostrare, al di là di ogni dubbio, che l’ateismo stia proprio dalla parte giusta. Dawkins si trova in difficoltà nell’affrontare questa duplice realtà:

1) il XX secolo è stato di fatto un lungo esperimento di secolarizzazione

2) il risultato è stato un male laico, un male che, semmai, si è rivelato nella sua virulenza più spettacolare di quello che si aveva prima.

Una parte delle difficoltà incontrate da Dawkins deriva dal fatto che la sua visione del mondo continua a essere di stampo vittoriano. Come molti hanno rilevato, si può riconoscere in lui un moderno figlio di Thomas H. Huxley. Il problema sorge dal fatto che questi nostri tempi moderni sono stati testimoni di esperimenti di ateismo istituzionalizzato da far gelare il sangue. Dawkins tende a non prendere in considerazione i crimini che ne sono derivati.

E insiste nel dire che non è ben chiaro se questi siano stati effettivamente ispirati dall’ateismo, sottolineando, a esempio, che la brutalità di Stalin potrebbe non aver trovato nel suo ateismo la propria motivazione. Se ciò di certo è parzialmente vero, è comunque rischioso affermarlo, soprattutto perché qualcuno potrebbe chiedere di fruire dello stesso distinguo nel considerare le istituzioni religiose. (Qualcuno crede sul serio che gli spaventosi rapporti della chiesa con il nazismo siano stati motivati dal suo teismo?)È comunque duro credere che le torture e le uccisioni all’ingrosso di preti e suore (comprese le crocifissioni) volute da Stalin e le persecuzioni dei cattolici e lo sterminio di quasi tutti gli ultimi resti del buddhismo da parte di Mao non abbiano la minima connessione con il loro ateismo.

Né le istituzioni del cristianesimo, né quelle del comunismo sono, è ovvio, incolpevoli. Tuttavia il fatto che Dawkins sia incapace di rilevare la differenza nel peso delle rispettive colpe (per l’ordine di grandezza, se non altro) sembra indicare un impegno ideologico del tipo che solitamente corrisponde alla devozione per una fede.È possibile che chi oggi va in chiesa sia moralmente peggiore di chi ne sta alla larga? Forse è proprio cosí.

In effetti Clive S. Lewis, nel suo Il cristianesimo cosí com’è,10 ammetteva questa possibilità. Sottolineando che la predicazione del Vangelo si rivolgeva ai deboli e ai poveri, Lewis ipotizzava che le anime turbate possono davvero essere attirate in modo eccessivo dalla chiesa. E proseguiva rilevando anche che il confronto corretto non doveva perciò essere fatto tra i comportamenti di chi frequenta le chiese e di chi non lo fa, ma tra i comportamenti delle persone prima e dopo la propria scoperta della religione.

Applicando la rigida logica dicotomica di Dawkins, il fatto che i pazienti in attesa nello studio di un medico sono mediamente meno sani di chi non si trova in un tale ambiente dovrebbe costituire un atto d’accusa contro la pratica della medicina. (Non esistono per altro, nell’Illusione di Dio, testimonianze di una familiarità di Dawkins con l’argomentazione di Lewis).11

A ogni buon conto, esistono alcune buone ragioni per chiedersi se il progetto di Dawkins abbia davvero senso. Come osservava Thomas S. Eliot, in un suo famoso intervento, chiedersi se le cose sarebbero andate meglio senza religione è una domanda cui non si può dare risposta. Tutta la nostra storia è stata con tale continuità modellata dalla tradizione giudaico-cristiana che non ci è possibile immaginare lo stato attuale della società senza di essa.

Ma qui si pone una questione più profonda che, ancora una volta, Dawkins sembra incapace di vedere. Perfino il significato di ciò che vogliamo dire parlando dell’andar meglio del mondo è condizionato dalla nostra eredità religiosa. Ciò che la maggior parte di noi occidentali vogliamo dire (e anche ciò che vuol dire Dawkins, come rivelano i dieci comandamenti da lui proposti) si riferisce a un mondo in cui gli individui sono liberi di esprimere i propri pensieri e le proprie passioni e di sviluppare i propri talenti, sino a che ciò non interferisce con la possibilità degli altri di fare altrettanto. Non è però sicuramente questo il modo in cui potrebbe apparire il mondo a una cultura, a esempio, di tradizione confuciana.

In tale caso un mondo nuovo e migliore potrebbe esser tale permettendo la più pronta soppressione delle differenze tra gli individui e tra le loro diverse aspirazioni. Il punto nodale è proprio che tutti i giudizi, compresi quelli relativi all’etica, hanno una qualche origine e i nostri, abbastanza spesso, hanno le loro origini nel giudaismo e nel cristianesimo. Dovremmo ovviamente applaudire Dawkins per il suo tentativo di dipingerci un mondo migliore, ma per onestà intellettuale non si può non riconoscere che questa visione morale deriva, in misura considerevole, proprio dalla tradizione da lui tanto disprezzata.12 5.

Una delle domande più interessanti che ci si possa porre a proposito del libro di Dawkins è: perché lo ha scritto? Perché Dawkins sente di aver qualcosa di significativo da dire sulla religione e che cosa gli dà il senso di autorità e autorevolezza presumibilmente necessario per dirlo in un intero libro? L’illusione di Dio dimostra senza dubbio che Dawkins non ha molte novità da offrici. Le sue argomentazioni sono quelle di ogni studente sveglio che ha sfogliato i più diffusi libri di Bertrand Russell e che ha visto, con orrore, qualche video di fanatici religiosi danzanti. Dawkins ha ovviamente diritto di avere le sue idee su Dio, il balletto e i mercati valutari, ma dubito che senta la necessità di scrivere testi sugli ultimi due argomenti.

La ragione per cui Dawkins pensa di aver qualcosa da dire a proposito di Dio è, s’intende, ben chiara: è un biologo evoluzionista. Come tutti sappiamo, il darwinismo ha avuto un precoce e rumoroso battibecco con la religione. Dawkins sembra però non voler mai prendere in considerazione il fatto che quell’incidente di percorso potrebbe essere stato, e in modo considerevole, circoscritto e contingente. Potrebbe, in altre parole, aver avuto uno sviluppo diverso, almeno in teoria.

I credenti potrebbero, a esempio, aver espresso collettivamente un “Beh, e allora?” di fronte alla proposta dell’evoluzione. Alcuni in effetti lo fecero. Le cause della reazione rabbiosa di molti capi religiosi al darwinismo sono complesse, e comprendono in parti uguali l’ignoranza, la paura, la politica e la pura e semplice scossa prodotta dalla novità. Non è affatto certo, ed è questo il punto importante, che esista un inevitabile conflitto tra l’accettazione del meccanismo evolutivo e il credere, per dirla con William James, che il mondo visibile faccia parte di un universo più spirituale.

Invece, noi e Dawkins potremmo semplicemente vivere in mezzo alle risonanze di un interessante, ma non proprio fondamentale, frammento di storia del periodo vittoriano. Se davvero fosse questo il caso, la biologia evoluzionistica non disporrebbe di un pulpito particolarmente elevato da cui far prediche sulla religione.

Tutto ciò non significa che la biologia evoluzionistica non possa influire sul nostro punto di vista circa la religione. Può farlo e, anzi, lo fa. Come minimo, ribadisce che i modi di operare del Signore sono misteriosi. Più in generale, ci chiede di respingere qualunque affermazione che sia prossima a un’interpretazione letterale della Bibbia. Ci sono alcuni dati di fatto in natura (tra i quali l’evoluzione degli esseri umani nella savana africana parecchi milioni di anni fa) che non sono soggetti a esser messi in discussione.

Il libro di Dawkins però va ben oltre questo punto. La ragione è evidente: L’illusione di Dio non è intrinsecamente un’opera di biologia evoluzionistica, in particolare, né di scienza, in generale. Nessuna delle forti dichiarazioni di Dawkins a proposito di Dio discende da un qualche dato o esperimento.

Sono soltanto le sue parole. Non dovremmo tuttavia concludere che non esista un contraddittorio, qualunque ne possa essere il tono, tra scienza e religione. Il punto di vista sostenuto da Stephen Jay Gould e da altri ricercatori secondo cui gli sforzi su entrambi i fronti sono nettamente distinti e dunque non in grado di interferire gli uni con gli altri è eccessivamente semplicistico.

Ci sono stati e probabilmente continueranno a esserci effettivi disaccordi tra la scienza lecita e la religione autentica. Alcune delle questioni affrontate sono di natura epistemologica (le affermazioni scientifiche e religiose partono semplicemente da premesse diverse e distinte, le prime materialistiche, le altre non materialistiche?) e altre di natura etica (dove e come tracciare una linea netta tra ciò che la medicina può realizzare e ciò che le si può consentire di realizzare?).

Sono domande difficili e potrebbero ben meritare ampie discussioni tra pensatori che si occupano di scienza o di religione. Per diventare davvero proficue, simili discussioni devono però svolgersi a un livello di finezza assai più alto di quello cui Richard Dawkins sembra aver la voglia o la capacità di ricorrere.

1 . D.C. Dennett, Rompere l’incantesimo. La religione come fenomeno naturale, Milano, Cortina, 2007 (ed. orig. 2006). Cfr. la recensione di F. Dyson, “La natura della religione”, la Rivista dei Libri, settembre 2007, pp. 16-19.

2 . R. Dawkins, Il gene egoista, Milano, Mondadori, 1976 (ed. orig. 1976).

3 . Id., L’arcobaleno della vita. Il mistero dell’universo svelato dalla scienza, Milano, Mondadori, 2001 (ed. orig. 1998); e Id., Il cappellano del Diavolo, a cura di T. Pievani, Milano, Cortina, 2004 (ed. orig. 2003), di cui si veda la mia recensione “Il credo dell’evoluzione”, la Rivista dei Libri, aprile 2005, pp. 16-17.

4 . La maggioranza dei biologi evoluzionisti può sostenere che, per spiegare l’origine della vita, non ci serve spiegare un qualsiasi oggetto complesso come un organismo attuale. Dobbiamo soltanto spiegare come possa essere sorta una molecola in grado di replicarsi. Data una tale molecola, la selezione naturale può agire e la vita, via via più complessa, può svilupparsi. Per quanto i dettagli siano difficili da illustrare e l’ipotesi non sia verificata, ci sono buone ragioni per ritenere che l’origine della vita possa aver avuto come elemento essenziale una molecola in grado di replicarsi, detta RNA. Secondo questa teoria, l’RNA era in grado di replicarsi da solo, senza la presenza di alcuna proteina o di altre molecole. Si veda il testo di J.P. Ferris, “From Building Blocks to the Polymers of Life”, in J.W. Schopf (a cura di), Life’s Origins: The Beginnings of Biological Evolution, Berkeley, University of California Press, 2002, pp. 113-39.

5 . Con ovvio riferimento al primo ministro inglese Arthur Neville Chamberlain che, nel 1938, firmò il Patto di Monaco con Hitler, consentendogli l’annessione dei Sudeti e, in seguito, l’annessione della Cecoslovacchia (ndt).

6 . Per altro materiale su questo punto, si può consultare l’intervista con Dawinks sul sito Salon.com (www.salon.com/books/int/2006/10/13/dawkins/index.html).

7 . D. Adams, Guida galattica per gli autostoppisti, Milano, Mondadori, 1980 (ed. orig. 1979).

8 . Per un interessante esame del punto di vista di Sagan, si veda l’articolo di R.C. Lewontin, “Divulgare la scienza”, la Rivista dei Libri, settembre 1997, pp. 9-12.

9 . T.S. Eliot: «L’incredulo incomincia… più o meno probabilmente, ponendosi la domanda: è credibile un caso di partenogenesi umana? E potrà dire che cosí si va direttamente al nocciolo della questione» (dall’Introduzione scritta da Eliot per i Pensieri di Pascal, pubblicati da Dutton nel 1958).

10 . C.S. Lewis, Il cristianesimo cosí com’è, Milano, Adelphi, 1997 (ed. orig. 1942).

11 . Nel confronto tra credenti e non-credenti, Dawkins stranamente tace anche su una delle differenze più note ed evidenti. I credenti elargiscono più denaro alle istituzioni benefiche (anche non religiose) di quanto facciano i laici. Si vedano, a esempio, i dati forniti dal Social Capital Community Benchmark Survey sul sito .

12 . Dawkins potrebbe probabilmente rispondere che il suo punto di vista morale deriva sia dall’evoluzione biologica sia da quella culturale, cioè dalla diffusione dei “memi”, l’unità dell’evoluzione culturale di cui, per averla introdotta, è padre putativo. Ho il sospetto che l’evoluzione biologica ci abbia impregnati di un rozzo senso morale, ma questo non può dar conto del tipo di differenze tra le culture giudaico-cristiana e confuciana cui abbiamo accennato.

Per quanto riguarda i memi, non vedo alcuna differenza tra il dire che la mia moralità deriva, diciamo, dal cristianesimo e il dire invece che il mio cervello ospita “memi di morale cristiana”. Comunque, la maggior parte degli studiosi non accetta la teoria dawkinsiana dei memi. La reazione di Lewis Wolpert nel suo nuovo libro è caratteristica: «Mi riesce difficile capire che cosa sia un meme e come lo si possa distinguere da una fede…

Non si fa distinzione tra memi correlati con la fede oppure con il sapere scientifico. Inoltre non viene proposto alcuH. ALLEN ORR insegna Biologia presso l’Università di Rochester negli Stati Uniti. Scienziato e saggista, collabora con The New York Review of Books, The New Yorker, Commentary e The Boston Review. È autore, insieme con Jerry A. Coyne, di Speciation (Sinauer, 2004).

H. ALLEN ORR RICHARD DAWKINS, L’illusione di Dio. Le ragioni per non credere

LEWIS WOLPERT, Six Impossible ThingsBefore Breakfast: The Evolutionary Origins of Belief, New York, Norton,

JOAN ROUGHGARDEN, Evolution and Christian Faith: Reflections of an Evolutionary Biologist, Washington, DC, Island,