A proposito di: “Il problema del riscaldamento globale” di  Freeman Dyson è stato incalzato un vivace scambio di opinioni.

Di seguito pubblichiamo i commenti di William D. Nordhaus (il cui libro, A Question  of Balance: Weighing the Options on Global Warming Policies, veniva recensito nell’articolo  di Dyson), di altri due lettori e una risposta dello stesso Freeman Dyson.

Non sono del tutto d’accordo con la recensione di Freeman Dyson al mio libro A Question  of Balance: Weighing the Options on Global Warming Policies. Questa recensione peraltro  ha stimolato l’invio di una vera e propria valanga di lettere che, in egual misura, si lamentavano  del mio lavoro o della recensione di Dyson. Questi commenti rappresentano una buona opportunità  per riprendere alcuni punti del mio libro che sono all’origine del maggior numero di controversie.

L’economia dei cambiamenti climatici è perfettamente chiara. In pratica  ogni attività che preveda direttamente o indirettamente l’utilizzo di combustibili  fossili determina l’emissione di diossido di carbonio nell’atmosfera. Il diossido  di carbonio si accumula e, con il passare dei decenni, determina il riscaldamento globale oltre  a molti altri cambiamenti geofisici potenzialmente dannosi. Le emissioni di diossido di carbonio  rappresentano le cosiddette “esternalità”, cioè le conseguenze sociali  di cui gli operatori del mercato non tengono conto.

Questa omissione da parte dei mercati dipende  dal fatto che la gente non paga i costi attuali e futuri delle proprie azioni. Se in campo economico si volesse proporre un’unica linea di condotta fondamentale bisognerebbe  decidere di correggere questa omissione del mercato in modo da assicurarsi che tutte le persone,  ovunque e sempre, anche in futuro si confrontino con un prezzo di mercato dell’impiego dei  composti del carbonio che tenga conto dei costi sociali delle loro attività. Bisognerebbe  che gli operatori economici – migliaia di governi, milioni di aziende, miliardi di persone,  per un totale di milioni di miliardi di scelte ogni anno – considerassero la vera spesa legata  all’impiego dei combustibili fossili se vogliamo che le loro decisioni su consumi, investimenti  e innovazione siano adeguate.

La strategia migliore per rallentare o prevenire il cambiamento climatico è quella di  imporre una tassa sulle emissioni di diossido di carbonio (o carbon tax) universale e modulata  a livello internazionale che tenga conto del contenuto di carbonio dei combustibili fossili. Per contenuto di carbonio si intende la quantità totale di diossido di carbonio emesso,  a esempio, quando utilizziamo 1 kilowattora di energia elettrica o bruciamo 1 gallone di gasolio.

Per comprendere il concetto di carbon tax consideriamo un cittadino americano medio  che consuma circa 12.000 kwh di energia elettrica all’anno, spendendo 0,10 dollari per kwh. Se questa energia elettrica derivasse da un combustibile fossile, la quantità consumata  genererebbe 3 tonnellate di diossido di carbonio.

Supponiamo che la tassa sulle emissioni di diossido  di carbonio sia di 30 dollari per tonnellata, il costo annuale dell’energia elettrica ricavata  dal petrolio salirebbe in questo caso da 1.200 dollari a 1.290. Per contro, i costi dell’energia  nucleare o dell’energia eolica non sarebbero influenzati da una carbon tax, perché  queste forme di energia non prevedono l’uso di combustibili fossili.

Aumentare il costo dei combustibili fossili imponendo una tassa sulle emissioni di diossido  di carbonio avrebbe principalmente lo scopo di promuovere forti incentivi alla riduzione di tali  emissioni. Questo scopo verrebbe raggiunto mediante quattro diversi meccanismi.

Primo, la carbon  tax indicherebbe ai consumatori quali beni e servizi producono elevate emissioni di diossido  di carbonio e dovrebbero dunque essere utilizzati meno frequentemente.

Secondo, segnalerebbe  ai produttori quali forme di energia utilizzano più composti del carbonio (come l’elettricità  ricavata dal carbone) e quali ne usano di meno (come l’elettricità ricavata dall’energia  eolica), inducendoli di conseguenza alla scelta di tecnologie a basso uso di combustibili fossili.

Terzo, fornirebbe incentivi agli inventori e agli innovatori per sviluppare e introdurre nuovi  prodotti che prevedano un ridotto sfruttamento dei composti del carbonio e processi in grado di  sostituire le tecnologie dell’attuale generazione.Infine imponendo un prezzo di mercato alle emissioni di diossido di carbonio si ridurrebbe  la quantità di informazione necessaria per raggiungere tutti e tre gli scopi indicati  sopra.

I consumatori etici che oggi cercano di ridurre al minimo la propria “impronta carbonica”  (la cosiddetta carbon footprint, cioè la quantità di composti del carbonio  che utilizzano) possono incontrare serie difficoltà nel compiere un calcolo accurato  delle relative emissioni di diossido di carbonio che risultano, a esempio, dallo spostarsi in  automobile piuttosto che in aereo.

Con una carbon tax il prezzo di mercato di tutte le attività  che prevedono l’impiego di combustibili fossili salirebbe in base al contenuto di composti  di carbonio tassati. Molti consumatori continuerebbero a non sapere in che misura il prezzo di  mercato è dovuto al contenuto di composti del carbonio, ma potrebbero ugualmente compiere  le loro scelte con la certezza di pagare anche il costo sociale per i combustibili fossili di cui  fanno uso.Qualcuno potrebbe sostenere che una tassa sulle emissioni di diossido di carbonio è soltanto  un altro triste esempio della filosofia economica del “tassa e spendi”.

Questo argomento  tuttavia fraintende la logica che sta alla base della stessa economia. Chi oggi utilizza i combustibili  fossili sta traendo guadagno da una sorta di sovvenzione, di fatto ingrassandosi alle spalle della  collettività globale senza pagare il prezzo reale della propria attività. Una  carbon tax determinerebbe un incremento e non una riduzione dell’efficienza economica  perché correggerebbe l’implicito sussidio legato all’uso dei combustibili fossili.

Rimane però aperto il principale problema in termini economici: qual è infatti  il giusto prezzo da pagare per le emissioni di diossido di carbonio? Attualmente è impossibile  (o comunque rovinosamente costoso) prevenire in parte o del tutto il futuro riscaldamento; tuttavia  un riscaldamento incontrollato rappresenta una seria minaccia per l’umanità  e in generale per i sistemi naturali.

Abbiamo di conseguenza bisogno di trovare un equilibrio tra  due obiettivi in competizione: prevenire ulteriori danni al clima globale e mantenere un certo  livello di crescita economica evitando rischi catastrofici e senza imporre eccessive privazioni  alla gente più povera o alle generazioni future.

La valutazione dei danni al clima globale include non soltanto l’impatto sui prodotti  dei mercati come il cibo o il legname ma anche la stima delle perdite dovute all’impatto su  parametri svincolati dal mercato. Gli studi più onnicomprensivi dei danni includono fattori  diversi come la maggiore frequenza e violenza degli uragani, le conseguenze del cambiamento delle  temperature e delle precipitazioni sulla produzione di alimenti, sugli svaghi e le comodità  e il peso crescente della diffusione di malattie.

Le stime considerano anche le correzioni dovute  al rischio di eventi a bassa probabilità ma con gravi conseguenze come a esempio un cambiamento  radicale del clima. Fornire stime attendibili relative a cosí tante conseguenze future  rappresenta davvero una sfida notevole, ma è altresí del tutto ragionevole che questi  effetti vengano considerati quando si stimano i danni provocati dal cambiamento climatico.

I miei studi in campo economico, riportati in A Question of Balance, suggeriscono che  si possa raggiungere un equilibrio imponendo un prezzo alle emissioni di diossido di carbonio  compreso tra 30 e 50 dollari per tonnellata, crescente con il passare del tempo. La cifra più  bassa corrisponde all’optimum economico in termini di costi-benefici; la cifra  più alta prevede un limite grazie al quale le temperature e le concentrazioni di diossido  di carbonio dell’atmosfera non dovrebbero superare livelli “di guardia”.

Per gli Stati Uniti una tassa simile corrisponde a circa 50-80 miliardi di dollari di entrate  all’anno. Traducendo questo valore in termini di spesa per un cittadino medio, una tassa  sulle emissioni di diossido di carbonio di 30 dollari per tonnellata corrisponde a una tassa sul  gasolio di circa 7 centesimi al gallone; questo aumento determinerebbe un incremento del prezzo  dei combustibili fossili e dei beni dipendenti da essi del 5% circa, un aumento che è significativamente  inferiore rispetto a quello sperimentato negli ultimi cinque anni.

Fatte queste premesse, vorrei analizzare due questioni sollevate da Freeman Dyson nella  sua recensione e anche in alcune lettere e commenti che ho ricevuto a proposito dell’articolo  di Dyson. Primo, il problema del tasso di sconto e, secondo, la questione delle tecnologie a basso  costo finalizzate alla riduzione delle emissioni di diossido di carbonio.

Una delle questioni più spinose nell’affrontare il problema del cambiamento climatico  riguarda la scelta del giusto tasso di sconto da adottare quando si confrontano i costi attuali  e i ricavi futuri. Questo aspetto risulta importante perché, riducendo l’uso dei combustibili  fossili, la società deve affrontare oggi il problema dell’abbattimento della spesa  necessaria per ridurre le emissioni, anche se la maggior parte dei danni evitati si colloca lontano  nel futuro. (Ricordate, come già ho notato, che il concetto di danno è assai ampio  e include gli impatti sui mercati, gli aspetti non commerciali e l’impatto ecologico, insieme  alle correzioni necessarie per gli eventi ad alto rischio).

Perfino la Stern Review on the Economics  of Climate Change elaborata da Lord Stern e caratterizzata da una visione assai pessimistica,  ritiene che i danni derivati dal cambiamento climatico nel secolo a venire saranno relativamente  limitati, mentre le conseguenze più pesanti si faranno sentire dopo il 2200. Abbiamo di conseguenza  bisogno di individuare un tasso di sconto appropriato per equilibrare la necessità attuale  di abbattere i costi e quella futura di limitare i danni che si registreranno fra un secolo o ancora  più tardi.

Per illustrare il problema rappresentato dalla scelta del tasso di sconto possiamo utilizzare  il seguente esempio. Supponiamo che una persona vi proponga un affare sicuro capace di far guadagnare  ai vostri discendenti 100 milioni di dollari (corretti secondo l’inflazione) in duecento  anni in cambio di un contributo attuale di una certa somma di denaro, pari a x dollari. Se  volete, i 100 milioni di dollari di ricavo potrebbero corrispondere alla riduzione dei danni dovuti  al cambiamento climatico; in alternativa, potreste immaginare che corrispondano all’acquisto  di parte dell’isola di Manhattan.

Qual è la somma più alta che vi sentireste di  investire?Una persona che si basi sulla semplice aritmetica potrebbe ragionare nel modo seguente. Io  so che il denaro investito grazie agli interessi aumenterà nel tempo. Se scegliessi un  tasso del 5%, in 200 anni arriverei al 1.000%, ovvero a una crescita pari a un fattore dieci. Di conseguenza,  in base a questi calcoli, per guadagnare 100 milioni di dollari in 200 anni, avrei bisogno oggi di  investire 10 milioni di dollari.

In altri termini, ipotizzando che il valore denaro investito  nel periodo di tempo considerato cresca di dieci volte, dovrei contribuire all’affare con  non più di 10 milioni di dollari oggi. Forse il tasso di interesse potrebbe essere superiore.  Se il fondo crescesse di 100 volte rispetto al suo valore iniziale, dovrei contribuire con non più  di 1 milione di dollari. Questo potrebbe essere il tipo di ragionamento matematico da fare per stabilire il valore dell’investimento  da compiere.

Tuttavia, questo tipo di approccio non è corretto. Il calcolo intuitivo non  tiene conto del fatto che in realtà l’interesse è composto, cioè viene  calcolato sull’investimento iniziale a cui si devono sommare gli interessi che nel tempo  si aggiungono all’importo inizialmente investito. Un consulente finanziario vi spiegherebbe  che per calcolare in modo corretto l’investimento da compiere oggi bisogna considerare  i 100 milioni di dollari e “scontarli” a partire dal presente usando un appropriato  tasso di interesse o tasso di sconto. Il tasso di sconto dovrebbe corrispondere all’importo  che potete guadagnare grazie ai vostri investimenti nell’arco di tempo considerato.

Nel nostro esempio inoltre 100 milioni dollari è una cifra corretta in base all’inflazione,  ciò significa che verremo pagati in beni futuri. Per questa ragione vogliamo applicare un  tasso di sconto sui beni per calcolare il valore dell’investimento da compiere oggi. (Di  nuovo ricordate che stiamo utilizzando un metro complessivo per valutare i beni in questa analisi;  inoltre i beni il cui valore sta salendo rispetto alla media avranno un tasso di sconto inferiore).

Un tasso di sconto sui beni è il tasso che applicheremmo convertendo il valore dei beni consumati  in futuro (corretto in base all’inflazione) nel valore attuale. Il tasso dovrebbe riflettere  non soltanto il guadagno implicito negli investimenti sociali ma anche i fattori di rischio: chi  ci propone l’affare potrebbe, a esempio, essere una banca privata e non lo Zio Sam, oppure  potremmo non avere eredi o, ancora, la parte dell’isola di Manhattan di cui diventeremmo  proprietari potrebbe essere sommersa.Basandosi su indagini e proiezioni storiche, si può affermare che il rendimento di un  investimento (corretto tenendo conto dell’inflazione) è dell’ordine del 3-6%  annuo a seconda del periodo di tempo considerato e del rischio.

Nel mio modello ho scelto un tasso  di sconto del 4%. Se applichiamo questo tasso di sconto all’affare significa che l’attuale  x che deve essere pagato corrisponde a 39.204 dollari. In duecento anni, dato che l’interesse  su questo importo è pagato e composto, si raggiungerebbe la somma di 100 milioni di dollari.

Molte persone sono turbate nel sentirsi proporre una cifra iniziale cosí bassa. Come  possiamo preoccuparci cosí poco per il futuro? Non stiamo forse correndo il rischio di truffare  le prossime generazioni? La risposta è che non siamo indifferenti al futuro ma possiamo però  contare su un’ampia varietà di investimenti produttivi in un’economia caratterizzata  da rapida trasformazione tecnologica.

La forza della crescita composta trasforma piccoli investimenti  paragonabili a ghiande in gigantesche querce finanziarie nell’arco di un secolo o più.  È sempre utile ricordare, pensando all’interesse composto, che con un tasso di interesse  monetario del 6%, i famosi 26 dollari pagati per Manhattan nel 1626 sarebbero oggi 120 miliardi  di dollari, una cifra approssimativamente uguale al valore dell’intera superficie di questo possedimento immobiliare cosí prezioso.

Qualcuno potrebbe affermare che non è eticamente molto corretto applicare uno sconto  al futuro e che dovremmo dunque scegliere un tasso molto basso per calcolare il valore attuale dei  beni futuri e dei danni dovuti al cambiamento del clima. Se è vero che in alcune circostanze  la scelta di un tasso di sconto basso appare plausibile, questa scelta si rivela peraltro poco applicabile  considerando la crescita economica ipotizzata nella maggior parte degli studi sulle conseguenze  del cambiamento climatico. La Stern Review, a esempio, ipotizza che il reddito reale pro  capite a livello globale salirà dagli attuali 10.000 a circa 130.000 dollari in due secoli.

Allo stesso tempo però sostiene che dovremmo compiere interventi urgenti oggi per ridurre  i danni che si osserveranno nel lontano futuro e sceglie pertanto un tasso di sconto vicino allo  zero. Certamente esistono buone ragioni per agire rapidamente sul cambiamento climatico, ma  non ritengo che la necessità di ridistribuire il reddito attuale a un ricco futuro sia una  di queste.

La conseguenza della scelta di un tasso di sconto basso può essere illustrata con una “prova  della piega”. Supponiamo che, analizzando il sistema climatico del futuro, gli scienziati  scoprano una piega, una lieve imperfezione, dovuta all’attuale cambiamento del clima –  forse potrebbe trattarsi di una piccola variazione nelle traiettorie delle correnti oceaniche  – in grado di determinare danni pari allo 0,1% dei consumi a partire dal 2200, continuando  poi con lo stesso ritmo negli anni seguenti.

Quanto dovrà essere consistente l’investimento  oggi per eliminare l’imperfezione che incomincerà ad avere effetto soltanto tra  due secoli circa?Se adottiamo il tasso di sconto proposto dalla SternReview, la risposta sarebbe  la seguente: dovremmo pagare fino al 56% dei consumi annuali a livello mondiale per eliminare quella  piega. In altri termini, adottando la logica di scontare il meno possibile, sarebbe necessario  un consumo oggi di circa 30.000 miliardi di dollari per correggere un piccolo problema che avrà  effetto tra due secoli.

Questo esempio dimostra perché le implicazioni della scelta di un  tasso di sconto vicino allo zero – scelta basata sull’idea che la generazione attuale  sia eticamente obbligata a compiere oggi grandi sacrifici per prevenire danni climatici relativamente  limitati alle ricche generazioni future – potrebbero essere davvero stravaganti.La logica che sta alla base della scelta del tasso di sconto non deve peraltro essere quella di  consumare tutto il nostro reddito, come fanno gli Stati Uniti oggi.

Piuttosto io inviterei a considerare  i numerosi investimenti ad alto rendimento che potrebbero migliorare la qualità della  vita delle future generazioni a casa nostra e fuori. Tra gli investimenti possibili ci sono quelli  nel nostro sistema sanitario, nelle cure contro le malattie tropicali, nell’educazione  a livello mondiale, nella ricerca di base di nuove fonti di energia e tecnologie a basso consumo  di combustibili fossili, nonché nelle infrastrutture in paesi martoriati dalla guerra  come l’Afghanistan. È difficile sostenere una tesi secondo cui cambiamenti relativamente  ridotti nei consumi dopo il 2200 dovrebbero avere una priorità rispetto a queste pressanti  necessità attuali.*3

La maggior incertezza relativa al cambiamento climatico riguarda l’evoluzione  delle tecnologie delle energie alternative che può verificarsi in un periodo di mezzo secolo  e oltre. Per riuscire a rallentare o a invertire la marcia del cambiamento climatico, le nostre  economie hanno bisogno di tecnologie radicalmente nuove, che siano poco costose, non dannose  per l’ambiente e virtualmente neutre per quanto riguarda l’emissione di diossido  di carbonio.

Dyson nota che nel mio libro ho affrontato il problema delle tecnologie del futuro in modo poco  approfondito limitandomi a indicare genericamente varie possibilità. Dyson peraltro  suggerisce una propria proposta risolutiva e scrive: «Io penso davvero che potremmo avere  “alberi geneticamente modificati per assorbire carbonio” nell’arco di vent’anni  e quasi certamente entro cinquant’anni».

Se è vero che in questo modo potremmo  assorbire gran parte del diossido di carbonio, tuttavia rabbrividisco di fronte alla prospettiva  di destinare vaste aree del pianeta alla crescita sovvenzionata di piantagioni di alberi. Il rischio  è che un programma di riforestazione sovvenzionata cosí massiccio interesserebbe  vaste aree oggi occupate da terreni agricoli, prevederebbe l’impiego di grandi quantità  di acqua e fertilizzanti e determinerebbe una crisi alimentare globale su scala ancora più  vasta di quella attuale causata in parte dal programma mal concepito e sovvenzionato negli Stati Uniti per produrre etanolo.

La storia del progresso tecnologico ci insegna che dovremmo evitare di mirare a una soluzione  vincente nella nostra ricerca di tecnologie rivoluzionarie in campo energetico. L’invenzione  radicale è fondamentalmente impraticabile. Chi avrebbe potuto prevedere le caratteristiche  della moderna elettronica, delle biotecnologie o delle comunicazioni un secolo fa? Allo stesso  modo è una scelta prudente quella di avere soltanto una vaga idea riguardo le tecnologie che  salveranno il pianeta dai danni dovuti al cambiamento climatico tra un secolo.

Dovremmo fare a  meno di credere che, per sviluppare la tecnologia chiave, sia necessario un progetto strategico  sul clima come il Progetto Manhattan, che portò alla costruzione della bamba atomica. Sembra  più ragionevole pensare che le nuove tecnologie amiche del clima saranno il risultato cumulativo  di un gran numero di invenzioni, molte delle quali sviluppate da piccoli inventori e nate in campi  diversi e non correlati.

Il modo migliore per incoraggiare il processo in grado di portare all’invenzione risolutiva  è assicurare un ambiente economico che sostenga l’innovazione e l’imprenditorialità.  I governi dovrebbero creare le condizioni perché vi sia un campo d’azione equilibrato  tra le diverse tecnologie in modo che nessuna riceva un trattamento di favore mediante sovvenzioni,  regolamentazioni o la protezione della proprietà intellettuale.

Il cambiamento climatico è un fenomeno complesso, caratterizzato da una notevole incertezza  e dal mutare quasi quotidiano delle nostre conoscenze. A breve termine è poco probabile che  il cambiamento climatico si riveli catastrofico, tuttavia questo fenomeno ha la potenzialità  di provocare gravi danni a lungo termine. Esistono numerosi sostegni economici alla progettazione  di un approccio efficiente in grado di rallentare il riscaldamento globale e assicurare che l’ambiente  economico sia favorevole all’innovazione.

L’approccio internazionale del Protocollo  di Kyoto attualmente in vigore risulterà molto costoso in termini economici e virtualmente  non avrà alcun impatto sul cambiamento climatico. A mio parere l’approccio migliore  è quello relativamente più semplice: imporre tasse sulle emissioni di diossido di  carbonio modulate a livello internazionale. Gli economisti e gli ambientalisti continueranno  senz’altro a discutere il giusto prezzo del carbonio, ma chiunque riconosca che siamo di  fronte a un problema globale serio sarà anche d’accordo sul fatto che il prezzo attuale  (cioè zero) sia troppo basso e debba perciò essere prontamente corretto.

William D. Nordhaus

All’editore: Come autore, insieme ad altri, della Stern Review on the Economics of Climate Change, devo rispondere alla recensione fuorviante di Freeman Dyson dell’ultimo libro di William  Nordhaus contenuta nell’articolo “Il problema del riscaldamento globale”.  La valutazione in termini economici degli effetti dei gas serra sulle emissioni di diossido di  carbonio è basata (1) sugli eventi attesi prodotti dall’innalzamento delle temperature  globali, come inondazioni, carestie, migrazioni e conflitti e (2) sull’importanza che  si deve attribuire a questi eventi oggi e nel futuro.

Dyson sbaglia nel riconoscere i difetti dell’approccio di Nordhaus su entrambi i fattori indicati, approccio che per questo motivo propone di ridurre  le emissioni di diossido di carbonio meno radicalmente di quanto prospettato nella Stern Review.

Per quanto riguarda il primo fattore, Nordhaus sottostima pesantemente la minaccia rappresentata  dal riscaldamento globale. In un paragrafo che lascia alquanto perplessi, Dyson scrive: «Il  libro [A Question of Balance] non si occupa … della scienza del riscaldamento globale  o della stima dei danni che questo fenomeno potrebbe causare … Le conclusioni di Nordhaus  sono dunque del tutto indipendenti dai dettagli scientifici».

Questa osservazione è grossolanamente sviante. Il modello di Nordhaus è il frutto  dell’opinione che lo stesso Nordhaus ha della scienza. Il problema è il fatto che le  sue previsioni non sembrano in linea con alcun tipo di analisi scientifica. Nordhaus dichiara,  sorprendentemente, che con una crescita incontrollata delle emissioni di diossido di carbonio,  il mondo raggiungerà nel 2100 lo stesso livello di ricchezza che avrebbe raggiunto, senza  il problema del riscaldamento globale, nel 2099, un “ridicolo” 2,5 per cento di differenza  nel Prodotto Interno Lordo.

Il più recente rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC)  indica invece l’esistenza di rischi significativi se le temperature globali, senza alcun  intervento da parte nostra per frenare le emissioni di diossido di carbonio, salissero di oltre  5°C rispetto all’età preindustriale entro il prossimo secolo. L’ultima  volta che il nostro pianeta è stato globalmente caratterizzato da temperature di 5°C  superiori alle attuali è stata 35-55 milioni di anni fa, quando ovunque c’erano foreste  pluviali e paludi, e i coccodrilli vivevano al Polo Nord.

L’ultima volta che il nostro pianeta  è stato caratterizzato da temperature di 5°C inferiori alle attuali è stata durante  l’ultima Glaciazione, circa 10-12.000 anni fa, quando gigantesche coltri glaciali si sviluppavano  verso sud fino a raggiungere l’attuale città di New York e l’Inghilterra centrale.  Qui però non parliamo di ghiacciai e coccodrilli. Si tratta infatti di ridisegnare con una  velocità mai vista prima la geografia di come e dove la gente vive.

Se le temperature dovessero  aumentare di 4°C o più nel prossimo secolo, il livello del PIL probabilmente ritornerebbe  indietro di decenni, non di anni, e miliardi di persone soffrirebbero a causa della fame, della  scarsità di acqua, delle migrazioni di massa e dei conflitti.Tuttavia Nordhaus riesce in qualche modo a dedurre, partendo dall’innalzamento di temperatura  indicato dall’IPCC di 3°C entro il 2100 e di 5,3°C entro il 2200, che l’impatto  sarà rispettivamente di un paio di punti percentuali e dell’8 per cento.

Nordhaus  con disinvoltura nota che «i sottomodelli usati nel DICE non possono riprodurre i dettagli  a livello regionale, industriale e temporale generati da altri modelli più grandi e specializzati»,  ma è proprio a livello regionale che si deve stimare il vero danno all’umanità.  Nel libro si fa qualche accenno agli uragani, ma i termini “inondazioni” e “carestie”,  cause principali della sofferenza umana e ambientale, vengono a malapena citati.

Nordhaus sistematicamente  sottostima i rischi regionali e locali e attribuisce a questi fattori impatti economici molto  limitati: perfino nel 2200 il PIL mondiale dovrebbe essere equivalente a quello di quattro anni  prima, rispetto all’andamento fondamentale previsto nel caso in cui non si abbiano cambiamenti  climatici.

Riguardo al secondo fattore, Dyson considera fondamentale la necessità di valutare  l’insieme degli eventi attesi per il futuro e risultanti dall’innalzamento delle  temperature globali quando si stabiliscono scelte politiche. Correttamente, riconosce poi  la scelta del tasso di sconto come fattore cruciale della questione. Applicare uno “sconto”  ai consumi significa definire il valore attuale che una certa unità di consumo avrà  in una qualche data nel futuro. La riduzione del valore dell’unità di consumo da un  anno all’altro viene determinata applicando il giusto “tasto di sconto” annuale.

Da un punto di vista personale tutti preferiamo guadagnare oggi piuttosto che domani e, a un certo  punto, ci aspettiamo di morire e dunque di subire un pesante “sconto” nel futuro. Ma  dal punto di vista della società, il problema di come i politici dovrebbero valutare le  conseguenze delle azioni attuali sulle future generazioni richiede di superare l’impazienza  innata dei singoli individui.

Tradizionalmente, esistono due ragioni per cui economisti e filosofi applicano un tasso di  sconto al reddito futuro della società. Dyson indica correttamente la prima e più  importante ragione e scrive: «I costi futuri vengono ricalcolati in base al tasso di sconto  scelto perché il mondo del futuro sarà più ricco e più preparato ad affrontarli.  I futuri ricavi vengono ricalcolati perché rappresenteranno una frazione sempre minore  del benessere futuro».

La perdita di “felicità” causata da un dollaro in meno che entra (per esempio  a causa di una ridotta disponibilità dell’acqua o per la sommersione delle coste)  sarà, in generale, minore per la gente ricca piuttosto che per chi fa fatica a sbarcare il  lunario. L’intuizione è semplice da capire: la “felicità” perduta  corrispondente al valore di un dollaro e determinata da una riduzione dei consumi per Bill Gates  sarà meno grave della stessa perdita per un bimbo di strada affamato, per il quale potrebbe  rappresentare la differenza tra la vita e la morte.

Di conseguenza, se le future generazioni saranno  più ricche, intraprendere ora iniziative per salvare le prossime generazioni da impatti  sgradevoli richiederà un minor investimento delle attuali risorse rispetto a quanto  richiesto per intraprendere ora azioni volte a evitare esattamente le stesse conseguenze sulla  gente più povera di oggi. Per questo motivo abbiamo bisogno di “scontare” gli  impatti futuri nella nostra valutazione del “valore attuale” dei danni dovuti al cambiamento  climatico.

Ciò che Nordhaus sembra dimenticare, tuttavia, è il fatto che, in base a quanto dicono  gli scienziati, le conseguenze particolarmente distruttive, come le inondazioni su larga scala, la siccità diffusa e le violente perturbazioni, potrebbero rendere alcune delle generazioni  future più povere rispetto alle generazioni attuali, cancellando i benefici della crescita  economica: per considerare questo effetto, bisognerebbe compiere uno sconto in negativo.

La  scelta, in questo caso, è tra percorsi incerti con implicazioni radicalmente diverse per  il pianeta. Tuttavia Nordhaus sbaglia e sceglie di applicare lo stesso elevato tasso di sconto  del 5,5 per cento senza tener conto del fatto che si possano verificare perdite banali ma anche devastanti  sottostimando dunque sistematicamente le ultime.Il tasso di sconto proposto  da Nordhaus è talmente alto che la perdita di valore di un dollaro dovuta al calo dei consumi  viene valutata per il 2150 vicina allo 0,02 per cento del valore attuale, senza tener conto della  possibile dimensione della catastrofe.

Minimizzando le perdite future in questo modo, Nordhaus  determina in anticipo la sua proposta politica di un’azione più limitata e di un prezzo  più basso per le emissioni di diossido di carbonio.Il non considerare sistematicamente la riduzione della “felicità” extra  per ogni dollaro mette inoltre in luce le debolezze della valutazione dei rischi compiuta da Nordhaus.  Noi attribuiamo un peso maggiore alle conseguenze peggiori proprio perché ci preoccupiamo  maggiormente a causa degli eventi estremi più gravi.

La nostra paura degli eventi catastrofici  capaci di renderci più poveri spiega perché la maggior parte di noi assicura la propria  casa, anche se sappiamo che le compagnie di assicurazione si arricchiscono grazie alle polizze  che ci difendono dai vari rischi prospettatici. Attribuendo un peso maggiore agli eventi più  gravi (cioè abbassando il tasso di sconto), l’approccio di Stern tiene automaticamente  conto di questo aspetto; Nordhaus non lo fa.Dyson scrive: «Stern rifiuta l’idea di ricalcolare i costi e i ricavi futuri comparandoli  con quelli attuali».

Ma si tratta di un’affermazione chiaramente errata. La Stern  Review basa la scelta del tasso di sconto esattamente sul principio per cui le future generazioni  potranno essere più ricche ma anche più povere, come sottolineato sopra. Di fatto la  Review è andata oltre applicando uno sconto aggiuntivo per coprire i rischi estremi  come nel caso in cui il mondo venisse devastato dall’impatto di asteroidi, dalla peste o da  un “Armageddon nucleare”.

Se non è possibile garantire l’esistenza delle  generazioni future, sembra inopportuno considerarle sullo stesso piano rispetto all’attuale  generazione, che invece chiaramente esiste.

Ciò che la Review rifiuta è lo sconto aggiuntivo che deriva dal discriminare  le future generazioni semplicemente sulla base della loro data di nascita, un processo indicato  come pure time discounting (tasso di preferenza temporale puro, ovvero “impazienza”).  Questo è il secondo motivo che giustifica la scelta del tasso di sconto: il passaggio del tempo  in sé. In questo caso il tasso di sconto è diverso da quello che tiene conto della differenza  delle entrate o da quello che considera il rischio di una futura estinzione, due fattori espressi  quantitativamente nella SternReview.

Il pure time discounting è  invece radicato nel desiderio dell’economista di riflettere le preferenze delle persone  e la gente appare in effetti impaziente in molte delle cose che fa. Ma il cambiamento climatico è  un problema sociale talmente a lungo termine da rendere inappropriata l’adozione di simili  preferenze personali per determinare una scelta politica. Perché dovremmo considerare  sulla stessa base il benessere delle attuali generazioni applicando però un trattamento  diverso al benessere delle generazioni nate l’anno prossimo o l’anno dopo ancora?

Dyson è ancora più impreciso quando scrive: «Nordhaus, che segue …  l’abitudine adottata da economisti e dirigenti di impresa, considera questa correzione  dei costi necessaria per ottenere un qualunque bilancio logico tra il presente e il futuro. Nell’idea  di Stern questa operazione è eticamente scorretta perché discrimina tra le generazioni  attuali e quelle future. Stern cioè ritiene che un simile approccio imporrà pesi  eccessivi alle generazioni future».

Qui si afferma non soltanto che Stern sbaglia a scegliere  il tasso di sconto, che è falso, ma anche che egli unilateralmente si allontana dal normale  approccio degli economisti.Per essere chiari, Nordhaus propone una discriminazione puramente basata sul tempo, in parte  perché assume che i tassi di rendita stabiliti dal mercato rivelino una preferenza sociale per i premi futuri piuttosto che attuali.

Un secolo di letteratura economica tradizionale,  da Marshall e Pigou a Arrow e Mirrlees, ha ormai riconosciuto che questo nesso logico è errato,  tranne che in circostanze poco plausibili (a esempio quando i mercati siano perfettamente concorrenziali  e tutti i consumatori siano rappresentati). Altri economisti, da Ramsey a Solow, Keynes e Sen rifiutano l’applicazione del tasso di sconto basata esclusivamente sul tempo  in quanto arbitraria, priva di fondamenti etici indispensabili nelle scelte politiche a lungo  termine. È dunque Nordhaus che si allontana dalla “normale abitudine”  che caratterizza i più rinomati economisti e filosofi, e non Stern.

Infine se decidessimo di investire convenzionalmente ai tassi di mercato e più tardi  cercassimo di limitare i futuri danni ambientali, i costi dell’azione sarebbero saliti  fortemente perché l’accumulo di gas serra – basato sulle attuali stime dell’IPCC  – sarebbe tale da poter ribaltare il clima globale causando cambiamenti pericolosi e irreversibili.

Allo stesso modo i consumatori attribuirebbero un valore più alto all’ambiente e di  conseguenza risarcirli per un dato deterioramento climatico sarebbe molto più costoso  di quanto sia oggi. I tentativi volti a quantificare l’azione di contrasto del cambiamento climatico devono  riflettere tutto il complesso dei rischi cosí come viene indicato dalle ultime conoscenze  scientifiche e adottare le scelte in campo economico che rispecchino in modo concreto questi rischi.

Le generazioni future non si meritano niente di meno. Gli approcci adottati nell’articolo  di Dyson e nel libro di Nordhaus sfortunatamente non raggiungono questo fondamentale obiettivo.Dimitri ZenghelisSenior Visiting Fellow della London School of EconomicsAssociate Fellow del Royal Institute of International Affairs, Londra, InghilterraAll’editore:L’eccellente recensione di Freeman Dyson dei libri di William Nordhaus e di Ernesto Zedillo  sul riscaldamento globale rimprovera gli autori perché non indicano i metodi low-cost  backstop come valide scelte per affrontare il problema del clima.

Dyson dimostra con eleganza  che lo sviluppo dovuto all’ingegneria genetica di «alberi che assorbono carbonio»  con la capacità di «trasformare gran parte del carbonio sottratto all’atmosfera  in qualche composto chimicamente stabile e trasferirlo in profondità sottoterra»  pone nelle nostre mani il destino nell’atmosfera di questo gas serra. Per Dyson è probabile  che la comparsa di questo tipo di vegetazione mangia-carbonio si verifichi nei prossimi vent’anni  e certamente entro i prossimi cinquant’anni, un periodo di tempo che dovrebbe permettere  alle nostre conoscenze del genoma delle piante di essere sufficientemente avanzate da consentirci  di controllare i processi biochimici dei vegetali.

Tuttavia mi permetto di sottolineare che non abbiamo bisogno di attendere neppure vent’anni  per utilizzare la vegetazione “mangia-carbonio” come strumento per limitare il riscaldamento  globale. Oggi siamo già in possesso delle necessarie biotecnologie (si veda, a esempio,  Jeffrey F. Parr e L.A. Sullivan, “Soil Carbon Sequestration in Phytoliths”, Soil  Biology and Biochemistry, vol. 37, 2005, pp. 117-24).

Le comunità vegetali naturali  hanno per millenni sottratto in piena sicurezza centinaia di milioni di tonnellate di diossido  di carbonio dall’atmosfera, intrappolando ogni anno il carbonio in microscopiche sferette  di silice contenute nelle loro foglie. Queste sferette di silice delle piante – chiamate  fitoliti, cioè “pietre vegetali” – hanno una notevole resistenza e si mantengono  inalterate a lungo dopo che gli altri composti di carbonio presenti nei vegetali sono stati decomposti  e sono già ritornati nell’atmosfera. Di conseguenza il carbonio intrappolato in  questi fitoliti è estremamente resistente alla decomposizione.

Molti dei vegetali che coltiviamo nei campi (a esempio piante erbacee come grano e canna da zucchero)  hanno una capacità di inglobare carbonio molto maggiore rispetto a quella di molte comunità  vegetali naturali simili (si veda, a esempio, ).  Questo particolare offre all’agricoltura la capacità potenziale di svolgere un  ruolo importante nel controllo dell’immissione di composti di carbonio nell’atmosfera.

Inoltre, tra le diverse varietà di una stessa specie coltivata, si osservano importanti  variazioni nella capacità di sequestrare il carbonio in sferette di silice, di conseguenza  l’adozione di queste soluzioni biotecnologiche davvero a basso costo richiederebbe di  compiere soltanto minimi cambiamenti all’attuale utilizzo dei terreni. Ne consegue, fatto  assai importante, che le scelte compiute ogni giorno dagli agricoltori nei loro campi su quali  piante seminare hanno, cumulativamente, un impatto considerevole sulla quantità di  carbonio sequestrato senza alcun pericolo per i terreni agricoli in tutto il mondo.

In breve non è necessario attendere decenni per decifrare il genoma delle piante e sviluppare  una vegetazione mangia-carbonio capace di limitare il cambiamento climatico: le nostre conoscenze  attuali dell’insieme dei fenotipi delle piante sono sufficienti. In modo un po’ perverso,  data la frequenza con cui in politica si parla della necessità impellente di limitare il  cambiamento climatico, uno dei più grandi ostacoli che intralcia la coltivazione di vegetali  mangia-carbonio è però la mancanza di iniziative strutturali nazionali e internazionali  capaci di garantire incentivi ai proprietari dei terreni per selezionare e allevare una vegetazione  “mangia-carbonio” più efficace.

Leigh Sullivan Director Southern Cross GeoScience, Southern Cross University, Lismore, New South Wales,  Australia Freeman Dyson risponde:

A tutti gli autori: queste lettere sono un insieme rappresentativo di molte altre, alcune  nettamente in disaccordo con la mia recensione, altre che esprimono consensi qualificati. Mi  scuso con gli autori delle lettere che non sono state pubblicate qui. Le mie risposte sono indirizzate  alle lettere pubblicate ma si adattano allo stesso modo anche alle altre. Da scienziato so che tutte  le opinioni, comprese le mie, possono essere errate. Io sostengo fermamente le mie idee perché  credo che siano corrette, ma non mi dichiaro certamente infallibile. Vi supplico, adottando le  parole di Oliver Cromwell, di considerare che anche voi potreste sbagliare. Un principio su cui  tutti dovremmo essere d’accordo è infatti l’incertezza del futuro.

A Dimitri Zenghelis: la lettera che mi scrive è una sintesi della tesi di Stern, che fondamentalmente  non condivido e riguardo alla quale invito i lettori a considerare le argomentazioni dell’intervento  di William Nordhaus nel numero di gennaio di questa rivista. La tesi di Stern si basa su una  visione nera del futuro. Il principale motivo per cui io la penso diversamente è il fatto che  nel primo decennio del XXI secolo il mondo si è irreversibilmente spostato verso un futuro  di maggiore speranza. In quest’ultimo decennio la Cina e l’India hanno infatti stabilito  che il denaro è più importante delle ideologie. Hanno insomma deciso di arricchirsi.

Questa decisione è simile a quella compiuta dall’Inghilterra nel XVIII secolo. Chi  governava l’Inghilterra decise allora che il denaro era più importante della religione.Il background intellettuale alla base di queste decisioni è descritto in un libro,  Le passioni e gli interessi, dell’economista Albert Hirschman, che  è stato mio collega per anni all’Institute for Advanced Study di Princeton. Nel XVIII  secolo “le passioni” erano le dottrine teologiche che nel XVII secolo guidavano le  guerre di religione. Nel XXI secolo “le passioni” sono le dottrine ideologiche che  nel XX secolo causavano le guerre nazionalistiche. In tutti questi secoli “gli interessi”  sono il predominio del commercio e dell’industrializzazione che rendono i paesi ricchi.La scelta di diventare ricchi non ha determinato la scomparsa della povertà in Inghilterra,  né comporterà che questa sparisca in Cina e in India.

Questa scelta significa però  che Cina e India, come l’Inghilterra trecento anni fa, diventeranno paesi ricchi, con un’influenza  dominante sul resto del mondo. L’Asia, il centro di gravità della popolazione mondiale,  sarà d’ora in avanti ricca e non più povera. Questo è il motivo per cui il  tasso di sconto del 4 per cento all’anno scelto da Nordhaus per l’economia mondiale  nel XXI secolo appare ragionevole.La differenza tra l’idea di Lord Stern del futuro e la mia è la differenza che c’è  tra passione e interesse, tra stagnazione ideologicamente imposta e libera crescita.

Lord Stern  vorrebbe che ci adeguassimo alla sua passione. Io vorrei che seguissimo i nostri interessi. Non  credo che la stagnazione, frutto dei costosi controlli proposti da Lord Stern per ridurre le emissioni  di gas serra, abbia senso se consideriamo l’economia o anche se consideriamo la climatologia.  Nelle società umane proprio come nei climi, i periodi di stagnazione si sono sempre alternati  a periodi di drastici cambiamenti. Un futuro caratterizzato da stagnazione permanente non è  attuabile né auspicabile. La Cina ha sopportato secoli di stagnazione ed è ragionevolmente  determinata a non sopportarne più. La invito a considerare con attenzione l’ultima  frase del libro di Hirschman: «Probabilmente questo è tutto ciò che possiamo  chiedere alla storia, e in particolare alla storia delle idee: non di risolvere i problemi, ma di  innalzare il livello del dibattito».

A William Nordhaus: apprezzo che lei sia d’accordo con gran parte della mia recensione  e che non abbia pensato di essere stato male interpretato. La sua principale critica, nell’ultima  parte della lettera, è il fatto che io considero soltanto la crescita su larga scala degli  alberi mangia-carbonio come una possibile soluzione low-cost backstop per fronteggiare  i dannosi effetti del riscaldamento globale. Non è d’accordo sulle estese piantagioni  di alberi perché richiedono l’uso dei terreni agricoli interferendo quindi con la  produzione di cibo, oltre ad avere altri effetti ecologici indesiderabili. Ho scelto di parlare  degli alberi mangia-carbonio perché si tratta di una delle possibili alternative da lei  citate nel suo libro.

Ho scelto di ipotizzare che soltanto un quarto della terra destinata alla  vegetazione venga occupata da varietà mangia-carbonio della stessa specie in modo che  la sostituzione si possa compiere senza toccare terreni agricoli o foreste commercialmente di  valore. La vegetazione sostituita potrebbe essere rappresentata da boscaglie e terreni agricoli  abbandonati e non utilizzati in questo momento per produrre cibo o legname. Ho anche sottolineato  che le specie mangia-carbonio dovrebbero rispettare la stessa varietà ecologica e costituire  lo stesso ambiente selvatico formato dalle piante sostituite. Non dovrebbe dunque ripetersi  il caso delle piante di granoturco convertite dalla produzione di cibo a quella di etanolo in seguito  allo stanziamento di sussidi governativi che lei, a ragione, giudica negativamente.

Due possibili proposte low-cost backstops di cui non ho parlato nella mia recensione,  dato che non erano state citate neppure nel suo libro, sono rappresentate dal fitoplancton mangia-carbonio  degli oceani o dall’aumentare la quantità di neve (o snow dumping) nell’Antartide orientale. Entrambe queste proposte potrebbero essere alternative preferibili rispetto agli  alberi mangia-carbonio. Fitoplancton è il nome tecnico con cui si indicano le microscopiche  piante che vivono nello strato superficiale degli oceani illuminato dal sole. Il fitoplancton  mangia-carbonio si potrebbe ottenere grazie all’ingegneria genetica per sequestrare  diossido di carbonio negli oceani e trasformare il carbonio in pallottole che sprofonderebbero  sui fondali e lí rimarrebbero.

Si eliminerebbe cosí il diossido di carbonio negli oceani  e questo verrebbe poi rimpiazzato dallo stesso gas sottratto questa volta dall’atmosfera. Il fitoplancton prodotto grazie all’ingegneria genetica dovrebbe essere meno costoso  e politicamente più accettabile rispetto agli alberi con genoma modificato. Il fitoplancton  geneticamente modificato potrebbe anche essere utile per altri due motivi: può infatti  incrementare la popolazione ittica di interesse commerciale, nonché ridurre l’acidità  degli oceani.

Aumentare la quantità di neve nell’Antartide orientale potrebbe invece essere  un mezzo valido per impedire l’innalzamento del livello dei mari. Il livello dei mari è  salito ininterrottamente a partire dall’ultima glaciazione, circa 12.000 anni fa. La maggior  parte dell’innalzamento non ha nulla a che fare con le attività umane degli ultimi  due secoli. Un innalzamento di 15 m sarebbe il risultato del completo scioglimento dei ghiacci  nella Groenlandia e nell’Antartide occidentale dovuto al riscaldamento globale.

Questo  scioglimento completo è improbabile ma non impossibile. Per fortuna la parte orientale  dell’Antartide è più fredda e più estesa della Groenlandia e dell’Antartide  occidentale e la calotta glaciale dell’Antartide orientale non rischia dunque di sciogliersi.  Un’area permanente di alta pressione (anticiclonica) sull’Antartide orientale  mantiene l’aria al di sopra del continente asciutta e le precipitazioni scarse.

Lo stesso  anticiclone determina la formazione di forti correnti occidentali di aria umida che circolano  intorno all’oceano meridionale.Per aumentare la quantità di neve accumulata nella parte orientale dell’Antartide  bisognerebbe spostare l’area anticiclonica dalla parte centrale a quella marginale del  continente. Questo spostamento si potrebbe determinare schierando un vasto numero di aquiloni  o palloni legati tra loro in modo da bloccare il flusso occidentale su un solo lato del continente.  Il blocco determinerebbe un innalzamento locale della pressione atmosferica. Il centro dell’anticiclone  si sposterebbe allora verso il blocco e una parte dei venti occidentali circolanti sul lato opposto  dell’Antartide si sposterebbe dall’oceano verso il continente.

Gli aquiloni o palloni  si potrebbero anche usare per generare quantità molto ingenti di energia elettrica da  impiegare in altri progetti di ingegneria su scala planetaria. Con o senza generatori elettrici,  il flusso di aria umida proveniente dalla costa con una velocità di alcuni kilometri all’ora  produrrebbe una media delle precipitazioni corrispondente alla formazione di qualche metro  di ghiaccio sull’Antartide orientale.

Tutto il ghiaccio aggiunto al continente verrebbe  sottratto agli oceani. Si avrebbe insomma una quantità di precipitazioni nevose sufficiente  per bilanciare l’innalzamento del livello dei mari prodotto dal completo scioglimento  dei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide occidentale in due secoli. Anno dopo anno,  potremmo alzare o abbassare gli aquiloni e regolare il flusso di aria umida attraverso il continente  in modo da mantenere il livello del mare sempre costante.Il fitoplancton mangia-carbonio e l’aumento della quantità di neve in Antartide  sono due progetti fantasiosi.

Come altri sogni ingegneristici del passato probabilmente verranno  superati da idee migliori e da tecnologie nuove molto prima di diventare necessari. Si tratta però  di due esempi del principio generale per cui gli antidoti anche alle peggiori conseguenze del cambiamento  climatico saranno presto disponibili se permetteremo all’economia di continuare a crescere.  Il futuro della tecnologia a cinquant’anni da oggi è del tutto imprevedibile. Questo  è un altro dei buoni motivi per cui ha senso applicare il tasso di sconto del 4 per cento all’anno  da lei suggerito ai costi dei disastri futuri.

A Leigh Sullivan: sono davvero felice del fatto che le piante mangia-carbonio esistano già  e non debbano essere inventate. Ma nella sua lettera o negli articoli da lei citati non viene specificato  quanto carbonio queste piante sono in grado di sottrarre all’atmosfera. La questione fondamentale  è infatti di tipo quantitativo. Le comunità naturali di piante sequestrano soltanto  una piccola parte del carbonio che assorbono. Ho conoscenze limitate in campo agricolo o della  fisiologia delle piante, ma credo che in questo rapporto le migliori piante mangia-carbonio siano  in perdita di un fattore pari almeno a dieci.

Se questa mia idea è corretta allora è necessario  che l’ingegneria genetica si dia un gran da fare per riuscire ad avere piante mangia-carbonio  in grado di sequestrare il diossido di carbonio in quantità tali da controbilanciare l’impiego  dei combustibili fossili. Lo stesso appunto si estende anche al fitoplancton mangia-carbonio.  Per controbilanciare l’uso dei combustibili fossili anche il fitoplancton dovrebbe infatti  sequestrare una parte preponderante del carbonio che riesce ad assorbire.

A tutti gli autori e ai lettori: vi ringrazio per avermi concesso questa opportunità  di discutere i problemi dell’inquinamento globale senza polemiche e accuse. Ritengo che  per raggiungere soluzioni plausibili dei problemi tutte le opinioni vadano ascoltate e tutti  i partecipanti al dibattito debbano essere trattati con rispetto.

Il problema della scelta del tasso di sconto è approfondito estesamente  nel nono capitolo del mio libro, A Question of Balance (Yale University Press, 2008). Questo  capitolo è anche disponibile in rete all’indirizzo: . . 5,5 per cento è il valore calcolato ufficialmente da Nordhaus nel suo modello  per i prossimi 50 anni.

Egli inoltre sostiene di essere convinto che si possa applicare un tasso  di sconto medio del 4 per cento nel prossimo secolo, ma non chiarisce come arriva a questa valutazione,  che dovrebbe presumibilmente essere il frutto dell’applicazione di un tasso un po’  più basso – indicativamente intorno al 2,5 per cento – per la seconda metà  del secolo.

Perfino con un tasso di sconto permanente del 4 per cento, la rendita di una persona nella  metà del prossimo secolo corrisponderebbe a circa 1/40 di quella di una persona oggi, favorendo  cosí scelte politiche che portano benefici alle nuove generazioni a spese di quelle future.

Tecnicamente Stern e Nordhaus usano entrambi il cosiddetto modello di Ramsey  per scomporre il tasso di sconto. La differenza sta nel fatto che Stern stabilisce il proprio tasso  di sconto considerando princípi fondamentali per giungere a un tasso di sconto complessivo.

Nordhaus adotta la tecnica esattamente opposta. Parte con la risposta – 5,5 per cento dedotto  dall’andamento dei mercati – e torna indietro per dare un nome ai vari termini dell’equazione  e “giustificare” il numero indicato. Questa tecnica si può adottare soltanto  applicando un elevato pure time discounting dato che i termini legati alle entrate differenziali  da soli non lo porterebbero a un valore di 5,5 per cento sulla base di una logica plausibile. . Di fatto i mercati finanziari sono pieni di deformazioni.

Cameron Hepburn, nel  suo “Discounting Climate Change Damages: Working Note for the Stern Review” (Oxford  University, 2006), e Simon Dietz, Cameron Hepburn, Nicholas Stern, in “Economics, Ethics,  and Climate Change” (London School of Economics, 2007), ammettono che è difficile  trovare un qualsiasi mercato che possa dare chiare risposte alla domanda: in che modo noi, come  generazione, valutiamo i vantaggi derivati dall’azione collettiva volta a proteggere  il clima per generazioni che esisteranno tra un centinaio di anni o più da oggi? Per un’analisi  più dettagliata, il lettore può fare riferimento alla recente Ely Lecture tenuta da  Lord Stern nel gennaio del 2008 all’American Economic Association Meetings e pubblicato  sull’American Economic Review, vol. 98, n. 2 (maggio 2008).

Si veda, a esempio: F. Ramsey, “A Mathematical Theory of Saving”,  The Economic Journal, vol. 38, n. 152 (dicembre 1928), pp. 543-59; A. Pigou, The Economics  of Welfare (Londra, Macmillan, 19324), pp. 24-25; R. Harrod, Towards a Dynamic  Economics (Londra, Macmillan, 1948), pp. 37-40; R. Solow, “The Economics of Resources  or the Resources of Economics”, American Economic Review, vol. 64, n. 2 (maggio 1974),  pp. 1-14; J. Mirrlees e N. Stern, “Fairly Good Plans”, Journal of Economic Theory,  vol. 4, n. 2 (aprile 1972), pp. 268-88; S. Anand e A. Sen, “Human Development and Economic Sustainability”,  World Development, vol. 28, n. 12 (2000), pp. 2029-49.

Il professor Mohammed Dore del Climate Change Lab della Brock University, St.  Catharines, Ontario, spiega questo punto brevemente in A Question of Fudge: Professor Nordhaus  on Global Policy for Climate Change (in stampa) quando sottolinea che: «È strano  come l’intera tradizione di Cambridge dell’economia del benessere – da Ramsay,  de Graaf fino a Mirrlees – non faccia alcuna differenza per Nordhaus; egli infatti afferma  che il cambiamento climatico può essere considerato la madre di tutto il bene pubblico e poi  si dimentica però del bene pubblico nel proporre le proprie linee di condotta ottimali!».

Lord Stern è attualmente l’IG Patel Professor of Economics and Government  alla London School of Economics, e ha alle spalle moltissimi anni di lavoro dedicati all’economia  pubblica. Ha pubblicato quindici libri e un centinaio di articoli e, dal 2000 al 2003, è stato  dirigente della Banca Mondiale. Di recente è stato eletto presidente della European Economic  Association dagli economisti accademici d’Europa ed è consulente di un lungo elenco  di capi di governo in tutto il mondo.

Si veda S. Dietz, Ch. Hope, N. Stern e D. Zenghelis, “Reflections on the Stern  Review (1): A Robust Case for Strong Action to Reduce the Risks of Climate Change”, World  Economics, vol. 8, n. 1

ANNA TREVES è docente di Geografia storica presso il Dipartimento di Geografia e Scienze  Umane dell’Ambiente dell’Università degli Studi di Milano. Tra i suoi libri  più recenti, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento (LED, 2002)  ha ottenuto il premio della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea.